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27. 34. Insisti, spirito mio, e fissa intensamente il tuo sguardo. Dio è il nostro aiuto, egli ci fece, e non noi. Fissa il tuo sguardo dove albeggia la verità. Ecco, immagina che una voce, corporea, cominci a risuonare, risuona, risuona ancora, ed ecco cessa, è già tornato il silenzio, la voce è passata, non c’è più voce ormai. Era futura, prima di risuonare, e non si poteva misurarla, perché non era ancora, come non si può ora, perché non è più. Si poteva misurarla quando risuonava, perché allora era, in modo che si poteva misurare. Ma anche allora non era ferma, perché andava, passava. O proprio per questo invece si poteva? Passando, infatti, si estendeva per un certo spazio di tempo, durante il quale si poteva misurarla, poiché il presente non ha nessuna estensione. Ammesso dunque che in quel frangente poteva essere misurata, eccoti ora una seconda voce, che cominciò a risuonare e risuona tuttavia con tono uniforme, senza alcuna variazione. Misuriamola finché risuona, poiché, appena avrà cessato di risuonare, sarà ormai passata e non sarà più, in modo che si possa misurare! Misuriamola, presto, e indichiamone la durata. Ma sta risuonando ancora: non si può misurarla, se non partendo dall’inizio della sua esistenza, ossia dal momento in cui cominciò a risuonare, e giungendo alla fine, ossia al momento in cui cessa. Gli intervalli si misurano appunto da un certo inizio e a un certo fine; quindi una voce non ancora finita non può essere misurata, non si può dire quanto sia lunga o breve, né dire se sia uguale a un’altra, o semplice o doppia o comunque diversa rispetto a un’altra. Ma una volta finita non sarà più. Come si potrà misurarla allora? Eppure misuriamo il tempo: non quello che non è ancora, né quello che non è più, né quello che non si estende in durata, né quello che non ha limiti; cioè non lo misuriamo né futuro, né passato, né presente, né passante; eppure lo misuriamo, il tempo.

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