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3. 4. Tu però, medico della mia intimità, spiegami chiaramente i frutti della mia opera. Le confessioni dei miei errori passati, da te rimessi e velati per farmi godere la tua beatitudine dopo la trasformazione della mia anima mediante la tua fede e il tuo sacramento, spronano il cuore del lettore e dell’ascoltatore a non assopirsi nella disperazione, a non dire: “Non posso”; a vegliare invece nell’amore della tua misericordia, nella dolcezza della tua grazia, forza di tutti i deboli divenuti per essa consapevoli della propria debolezza. I buoni, poi, godono all’udire i mali passati di chi ormai se ne è liberato; godono non già per i mali, ma perché sono passati e non sono più. Con quale frutto dunque, Signore mio, cui si confessa ogni giorno la mia coscienza, fiduciosa più della speranza nella tua misericordia, che della propria innocenza, con quale frutto, di grazia, confesso anche agli uomini innanzi a te, attraverso queste pagine, il mio stato presente, non più il passato? Il frutto di quelle confessioni l’ho capito e ricordato; ma il mio stato presente, del tempo stesso in cui scrivo queste confessioni, sono molti a desiderare di conoscerlo, coloro che mi conoscono come coloro che non mi conoscono, ma mi hanno sentito parlare di me senza avere il loro orecchio sul mio cuore, ove io sono comunque sono. Dunque desiderano udire da me la confessione del mio intimo, ove né il loro occhio, né il loro orecchio, né la loro mente possono penetrare; desiderano udirmi, disposti a credere, ma come sicuri di conoscere? Glielo dice la carità, per cui sono buoni, che non mento nella mia confessione di me stesso. È la carità in loro a credermi.

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