trit_Confessiones_ VII304_397

Ero sorpreso di amarti, ora, e più non amare un fantasma in tua vece. Ma non ero stabile nel godimento del mio Dio. Attratto a te dalla tua bellezza, ne ero distratto subito dopo dal mio peso, che mi precipitava gemebondo sulla terra. Era, questo peso, la mia consuetudine con la carne; ma portavo con me il tuo ricordo. Non dubitavo minimamente dell’esistenza di un essere cui dovevo aderire, sebbene ancora non ne fossi capace, perché il corpo corruttibile grava sull’anima, e la dimora terrena deprime lo spirito con una folla di pensieri ; ed ero assolutamente certo che quanto in te è invisibile, dalla costituzione del mondo si scorge comprendendolo attraverso il creato, così come la tua virtù eterna e la tua divinità. Nel ricercare infatti la ragione per cui apprezzavo la bellezza dei corpi sia celesti sia terrestri, e i mezzi di cui dovevo disporre per formulare giudizi equi su cose mutevoli, allorché dicevo: “Questa cosa dev’essere così, quella no”; nel ricercare dunque la spiegazione dei giudizi che formulavo giudicando così, scoprii al di sopra della mia mente mutabile l’eternità immutabile e vera della verità. E così salii per gradi dai corpi all’anima, che sente attraverso il corpo, dall’anima alla sua potenza interna, cui i sensi del corpo comunicano la realtà esterna, e che è la massima facoltà delle bestie. Di qui poi salii ulteriormente all’attività razionale, al cui giudizio sono sottoposte le percezioni dei sensi corporei; ma poiché anche quest’ultima mia attività si riconobbe mutevole, ascese alla comprensione di se medesima. Distolse dunque il pensiero dalle sue abitudini, sottraendosi alle contradizioni della fantasia turbinosa, per rintracciare sia il lume da cui era pervasa quando proclamava senza alcuna esitazione che è preferibile ciò che non muta a ciò che muta, sia la fonte da cui derivava il concetto stesso d’immutabilità, concetto che in qualche modo doveva possedere, altrimenti non avrebbe potuto anteporre con certezza ciò che non muta a ciò che muta. Così giunse, in un impeto della visione trepida, all’Essere stesso. Allora finalmente scorsi quanto in te è invisibile, comprendendolo attraverso il creato; ma non fui capace di fissarvi lo sguardo. Quando, rintuzzata la mia debolezza, tornai fra gli oggetti consueti, non riportavo con me che un ricordo amoroso e il rimpianto, per così dire, dei profumi di una vivanda che non potevo ancora gustare.

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