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Comunque, allorché il tuo servo Simpliciano mi ebbe narrata la storia di Vittorino, mi sentii ardere dal desiderio d’imitarlo, che era poi lo scopo per il quale Simpliciano me l’aveva narrata. Soggiunse un altro particolare: che, poiché ai tempi dell’imperatore Giuliano un editto proibiva ai cristiani d’insegnare letteratura onoraria, Vittorino, inchinandosi alla legge, aveva preferito abbandonare la scuola delle ciance anziché la tua Parola, che rende eloquente la lingua di chi non sa parlare. A me però non parve che qui la sua forza d’animo fosse stata superiore alla sua fortuna, poiché vi trovò l’occasione per dedicarsi interamente a te. A tanto aspiravo io pure, impacciato non dai ferri della volontà altrui, ma dalla ferrea volontà mia. Il nemico deteneva il mio volere e ne aveva foggiato una catena con cui mi stringeva. Sì, dalla volontà perversa si genera la passione, e l’ubbidienza alla passione genera l’abitudine, e l’acquiescenza all’abitudine genera la necessità. Con questa sorta di anelli collegati fra loro, per cui ho parlato di catena, mi teneva avvinto una dura schiavitù. La volontà nuova, che aveva cominciato a sorgere in me, volontà di servirti gratuitamente e goderti, o Dio, unica felicità sicura, non era ancora capace di soverchiare la prima, indurita dall’anzianità. Così in me due volontà, una vecchia, l’altra nuova, la prima carnale, la seconda spirituale, si scontravano e il loro dissidio lacerava la mia anima.