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Feci visita dunque a Simpliciano, padre per la grazia, che aveva ricevuto da lui, del vescovo di allora Ambrogio e amato da Ambrogio proprio come un padre. Quando, nel descrivergli la tortuosità dei miei errori, accennai alla lettura da me fatta di alcune opere dei filosofi platonici, tradotte in latino da Vittorino, già retore a Roma e morto, a quanto avevo udito, da cristiano, si rallegrò con me per non essermi imbattuto negli scritti di altri filosofi, ove pullulavano menzogne e inganni secondo i princìpi di questo mondo. Nei platonici invece s’insinua per molti modi l’idea di Dio e del suo Verbo. Per esortarmi poi all’umiltà di Cristo, celata ai sapienti e rivelata ai piccoli, evocò i suoi ricordi di Vittorino, appunto, da lui conosciuto intimamente durante il suo soggiorno a Roma. Quanto mi narrò dell’amico non tacerò, poiché offre l’occasione di rendere grande lode alla tua grazia. Quel vecchio possedeva vasta dottrina ed esperienza di tutte le discipline liberali, aveva letto e ponderato un numero straordinario di filosofi, era stato maestro di moltissimi nobili senatori; così meritò e ottenne, per lo splendore del suo altissimo insegnamento, un onore ritenuto insigne dai cittadini di questo mondo: una statua nel Foro romano. Fino a quell’età aveva venerato gli idoli e partecipato ai sacrifici sacrileghi, da cui la nobiltà romana di allora quasi tutta invasata, delirava per la dea del popolino di Pelusio e per mostri divini di ogni genere e per Anubi l’abbaiatore, i quali un giorno presero le armi.

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