trit_Confessiones_ VI278_275
Egli si stupiva che io, non poco stimato da lui, fossi invischiato nel piacere a tal punto, da asserire, quando se ne discuteva fra noi, che non avrei potuto assolutamente condurre una vita celibe; ed io, al vedere il suo stupore, mi difendevo sostenendo che passava una bella differenza tra le sue momentanee e furtive esperienze, rese innocue e facilmente disprezzabili dal ricordo ormai quasi svanito, e i diletti della mia consuetudine, cui mancava soltanto l’onorato titolo di matrimonio per togliergli ogni ragione di stupore, se non riuscivo a spregiare quella vita. Alla fine era entrato in corpo anche a lui il desiderio di sposare, facendo breccia non tanto con la lusinga del piacere, quanto con quella della curiosità. Era curioso, diceva, di conoscere il bene, senza del quale la mia vita, a lui accetta così com’era, a me non sembrerebbe più una vita, ma un tormento. Il suo animo, libero da legame, si meravigliava della mia schiavitù, e la meraviglia lo stuzzicava a farne esperienza. Ma, venuto appunto all’esperienza, forse sarebbe caduto nella schiavitù di cui si meravigliava: cercava di stringere un patto con la morte, e chi ama il pericolo, vi cadrà. Certo nessuno di noi due era gran che mosso dalla dignità coniugale, quale può consistere nel compito di guidare un matrimonio e di allevare dei figli: io, per essere soprattutto e duramente schiavo torturato dell’abitudine di appagare l’inappagabile sensualità; lui, per essere trascinato alla schiavitù dal fascino dell’ignoto. Tale il nostro stato, finché tu, altissimo, che non abbandoni il nostro fango, impietosito dalla nostra condizione pietosa, ci venisti in aiuto in modi mirabili e segreti.